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Mascolinizzazione della donna e femminilizzazione dell’uomo

A proposito della mascolinizzazione della donna:

Questo processo ha portato la donna oltre che potenziale genitrice anche ad assumere ruoli sociali di vertice. Posizioni che in ultima analisi si sono rivelate sterili, prive di poteri di controllo reali dell’io, perché appiattite su archetipi maschili. Purtroppo pero’ la sovrapposizione femminile ha indotto la parallela devitalizzazione del maschio e la nascita univoca di un individuo neutro, diviso tra lavoro e diletto irresponsabile.

Azzerata ogni differenza con il maschio, la donna ha pensato di poter trovare la strada della piena realizzazione sacrificando il suo tempo attivo sull’altare del lavoro.

Non è quindi un caso se le società del cosiddetto mondo avanzato sono quelle più socialmente in crisi e destinate alla estinzione. Società nelle quali la donna spende le sue energie migliori per soffocare la madre e ambire a ruoli maschili. Scoprirà poi alle soglie della maturità, che l’aver azzerato le differenze le ha solamente regalato una effimera felicità dalla quale la libertà non avrà tratto alcun giovamento. Il corso della storia ci ha testimoniato che ad ogni rivoluzione segue una reazione di recupero dell’ordine delle cose.

A fronte della mascolinizzazione della donna ci troviamo dinanzi al fenomeno della femminilizzazione del maschio

Sarebbe più appropriato parlare di ridotta “androgenizzazione” del maschio moderno o devirilizzazione.

Quello che in realtà si sta verificando è una modificazione (in senso femminile) dell’aspetto fisico del maschio (fenotipo),anche legato talvolta a una relativa riduzione dell’ormone maschile per eccellenza: il testosterone.

Ma dove e’ il maschio e dove e’ la femmina oggi?

Aldila’ dei discorsi prettamente medici, dal punto di vista psicologico invece il maschio sta perdendo la propria virilità a causa di una società in cui le donne stanno prendendo il sopravvento grazie alle proprie potenzialità e capacita’ da tutti i punti di vista e nei campi piu’ svariati. E’ innegabile che cio’ generi un pericolo per la nostra societa’ laddove l’inversioni dei ruoli e’ confondente sia sul piano dell’identità sia sul piano genitoriale. Nella coppia con figli, spesso, si trova il maschio-mammo  che e’ una delle piu’ evidenti femminilizzazioni della figura maschile, senza pensare poi alla perdita di responsabilità prettamente maschili che obtorto collo finiscono col gravare sul ruolo della donna. La donna di conseguenza si trova spesso a svolgere due ruoli contemporaneamente di donna e di uomo ognuna con le sue rispettivamente responsabilità. Tutto cio’ genera una super lavoro nella donna, uno stress che spesso la porta a perdere l’identità femminile nel senso piu’ puro, rischiando la mascolinizzazione, questo anche perche’ in alcuni tipi di lavoro vengono fatte richieste alle donne di tipo maschile. Di conseguenza la donna potrà sempre meno occuparsi dei suoi cuccioli qualora li abbia, oppure avere difficolta’ a metterli al mondo qualora non li abbia. E’ molto frequente trovare la donna che non riesce a rimanere incinta a fronte di esami diagnostici del tutto negativi sia in lei che nel partner……ma queste sono ipotesi ancora aperte.

Inoltre, il ribaltamento dei ruoli non incide positivamente sui figli all’interno di un nucleo familiare, in quanto i bambini nonché gli adolescenti hanno bisogno di trovare nella madre una donna accogliente e accudente seppur lavoratrice, e nel padre una figura di riferimento forte, vigorosa e determinata. L’assenza di cio’ puo’ provocare destabilizzazione nei figli e confusione,soprattutto per quanto riguarda le identificazioni, della figlia con la madre e del figlio con il padre.

In conclusione, si puo’ dire che, allo stato attuale, la situazione della donna e dell’uomo e’ molto completa e confusa, e ripensando all’800 non possiamo altro che invidiare la forte definizione dei ruoli, secolo in cui, vero e’, che la donna non aveva diritto al voto, conquistato in seguito, ma in cui aveva un ruolo forte di femmina, di donna, di madre e di moglie e l’uomo era uomo, un uomo su cui poter contare e ancora di riferimento, oggi e’ difficilmente cosi’. Ovviamente non va fatta una generalizzazione in entrambi i periodi storici ma una via di mezzo sarebbe la soluzione piu opportuna.

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Scegliere o essere scelti: fa la differenza?

“Nella vita ci sono cose che ti cerchi e altre che ti vengono a cercare. Non le hai scelte e nemmeno le vorresti, ma arrivano e dopo non sei più uguale. A quel punto le soluzioni sono due: o scappi cercando di lasciarle alle spalle e ti fermi e le affronti. Qualsiasi soluzione tu scelga ti cambia, e tu hai solo la possibilità di scegliere se in bene o in male”

Giorgio Faletti

  Nelle relazioni d’amore lo scegliere o l’essere scelti risale all’educazione o alle esperienze della prima infanzia. Il genitore che educa il proprio figlio al pensiero libero lo educherà anche a scegliere e non ad essere scelto, se non ad essere scelto da chi piace. Purtroppo non sempre accade che le cose vadano cosi e allora la bassa autostima induce l’individuo ad accompagnarsi o a unirsi da chi lo sceglie o per timore di scegliere o solo per il fatto di non saperlo fare o perché la bassa autostima non permette non solo di scegliere, ma di fare scelte rilevanti che abbiano un peso specifico e siano all’altezza del nostro valore. E allora cosa succede veramente? Si e’ scelti! E si può essere scelti anche dal primo/a che capita creandosi poi conflitti derivanti dai diversi stili educativi o dai diversi ideali e modi di concepire la vita.

Ci dicono da subito una frase, ci insegnano e ci consegnano una specie di formula magica con cui, pare, dovremo fare i conti per quasi tutta la vita. La frase è: “fai una scelta”. Che detta così sembra apparentemente una delle massime espressioni della libertà individuale, e invece non è proprio da intendersi in questo modo. Intanto, “fare una scelta”, laddove non si hanno molte  scelte da fare, o che non si sanno fare, già’ può apparire  una imposizione e non una opzione, poi, nell’atto stesso della decisione intervengono componenti spicciole di ansia, di incertezze, di ripensamenti, per non parlare delle contaminazioni culturali, ambientali, sociali che forse inquinano la chiarezza e la linearità  della scelta. In particolare modo mi riferisco alle scelte in campo affettivo: e’ interessante scoprire in quante numerose occasioni siamo chiamati a scegliere; dall’iniziare una relazione al continuarla o a decidere di voler bene soprattutto a se stessi per poi poter anche scegliere di rimanere soli.

 Ogni giorno ci viene data una  agenda immaginaria personale, tuttavia  molti appuntamenti non sono consapevolmente scelti da noi, molti aspetti negativi  della vita non li decidiamo, alcuni eventi pesanti non li costruiamo, ma li subiamo. Molti momenti non ce li meritiamo, molto dolore ci arriva senza averlo chiesto e quando arriva, e trova un varco aperto, chiama altro dolore. In una nudità umana fragile ed esposta si consumano vite, e allora ci possono anche  aggredire malattie che nella loro cattiveria, senza pietà. Partecipiamo annichiliti e impotenti a situazioni che non richiedono nessuna forma di operatività, ma  solo allo scempio del morboso assistere, perché “altro” non c’è da fare… E allora, il tema è: qui, dove si annida “la scelta”?

E allora si cercano certezze, soluzioni più per la consuetudine a pensare che per la capacità di trovarle.

Quindi, non scegliamo. O scegliamo poco. E rischiamo di essere scelti. Non si sa da chi, se dalla chimica, da un calcolo di probabilità, o dalla biologia, da un gesto di amore, di tenerezza o  solo di unione, da un progetto divino, da una imprevedibile quanto superba mescolanza di cellule o dal timore di rimanere soli.

Oppure, più semplicemente, potremmo aver bisogno di scegliere di essere stupidamente,  sorprendentemente, umanamente, appena  un po’ più felici. E non avere il timore di presentare a noi stessi, questa felicità.

L’essere scelti talvolta può essere pero’ anche una fortuna, poiché si può essere scelti da chi ci ama più di quanto noi amiamo noi stessi e paradossalmente ci può insegnare ad amarci di più. Scegliere di abitare, di nutrire, di vivere questa felicita’. Perché, se davvero ci dovessimo dire la  sola verità possibile, nessuno vorrebbe soffrire, ammalarsi, sentirsi inutili, sentirsi offesi, violati. Siamo scelti e/o possiamo scegliere. Questa e’ la libertà’ che l’essere umano possiede che se ben gestita apre il varco alla serenità e ad una migliore qualità di vita.

GIORGIO FALETTI

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Desiderio, passione e noia

Il desiderio

Gli antichi Greci chiamavano desiderio . Lo volevano figlio della dea Afrodite  e fratello di Eros, lo slancio d’amore , e di Photos, il rimpianto nostalgico.

Fin dall’alba dell’Occidente, dunque, il desiderio si trova al crocevia tra l’amore, la bellezza, la passione, il senso di mancanza e di perdita. Di tutte queste regioni condivide qualche spazio, senza abitarne mai compiutamente uno solo. Proiettato verso il futuro nello slancio della passione, il desiderio conosce anche la malinconica contemplazione del passato, e si muove cosi tra un non più e un non ancora.

La realtà’ dell’incompiutezza, quindi, e’ scritta nel codice genetico del desiderio stesso. Come e’ incisa , nel suo stesso nome , una sorta di mappa del cielo.

Soddisfare il desiderio significa ( e’ ancora lo sguardo etimologico ad aiutarci) “ fare abbastanza “ (salis-facere) per placarlo: ma nello spazio dell’infinito e dell’indefinito non si potrà’ mai fare abbastanza.  Realizzare il desiderio ha a a che fare con l’atto di renderlo “cosa” (res) , espropriandolo di quel greto di incompiuta tensione che ne costituisce la bellezza.

Se desiderare e’ sentire una mancanza, e’ davvero cosi ovvio che questo significhi doverla riempire?

Gli esseri umani sono desiderio. Sempre. Il desiderio in se’ per se’, e’ la molla della vita. Ma si possono desiderare cose che ci fanno fiorire e si possono desiderare cose che ci fanno appassire. Il desiderio subito corre su ciò che ha una qualche convenienza per noi, ma le cose che hanno per noi convenienza sono molteplici e a volte non sono tra loro compatibili. Il desiderio e’ costretto a scegliere, prima o poi, un qualche ordine nella sequenza delle sue intenzioni.

E per far questo deve tener presente quale e’ il soggetto ultimo. Solo cosi può  “ordinare” i suoi oggetti interni.Come dire che ogni essere umano deve riflessivamente mettere in campo una qualche strategia di vita. E può accadere (anzi accade spesso) che una giusta strategia di vita gli vieti di scegliere una certa cosa e gli ingiunga di sceglierne un’altra. La bontà’ della scelta e’ a volte difficile e a volte facile. Ma spesso basta anche un po’ di buon senso per non sbagliare.

E ci sono poi i sensi più acuti di quelli che riguardano il mangiare e il bere e il fare l’amore? Sono infatti queste le due grandi fonti di piacere, degli esseri umani e sono quindi queste le due grandi “tentazioni” che fanno perdere talvolta il “ben dell’intelletto”. Qui il desiderio diventa facilmente “corto”  e potrebbe precipitare nella trasgressione: mentre il desiderio dovrebbe essere sempre “lungo” per seguire le indicazioni di una retta regola. Dovrebbe, cioè’, ascoltare quello che una buona riflessione gli può far vedere. Il desiderio, per quanto malato esso possa essere, nelle persone “normali” resta sempre libero nel suo fondo.

Dalla passione alla noia

Quando due persone si incontrano e si attraggono fortemente scatta la passione, la voglia di stare insieme sempre, di assaggiarsi, annusarsi, strusciarsi, stare in intimità, condividere tante cose, provare gelosia perche’ no, e desiderarsi tanto al punto tale da scordarsi talvolta si se stessi: questa e’ passione. Tutto gira intorno alla passione per l’altro /a e tutto diviene secondario….ma non dura a lungo  (fortunatamente?) come tutti vorremmo, altrimenti il nostro corpo, il soma, non ce la farebbe a compiere il corso della vita costantemente in uno stato adrenalinico e di allerta.

Poi quando una coppia inizia a convivere, è logico che  dapprima sia tutta un’ emozione. Ma è necessario che si tenga in conto anche “l’altra parte”: quella che ancora non ha avuto l’opportunità di vedere l’uno dell’altra.

Quando si tratta di ripartirsi i compiti e le spese, è comune che sorgano piccoli conflitti, cosi come nella gestione sei figli, cosi come nei diversi modi di vedere l’andamento domestico, precipitato delle proprie educazioni ed altri temi ancora.

E dopo i conflitti puo’ subentrare l’indifferenza. Frutto di una convivenza prolungata e poco intima, si può arrivare a sviluppare questo sentimento di apatia, disgusto e rifiuto per l’altro. È il momento in cui tutto quello che fa il partner risulta ai nostri occhi criticabile, migliorabile e sbagliato. Discutiamo per sciocchezze e non gliene lasciamo passare una. Finché non arriva il giorno in cui, nel vero senso della parola, “non ci fa più caldo né freddo”. Ci rassegniamo e viviamo infelici in uno stato di noia perenne.

Verso la noia e la routine

La routine quotidiana, la mancanza di entusiasmo e di spontaneità, l’assenza di sorprese e interessi, fondamenta fragili, la mancanza di passioni comuni… Sono molte le cause della noia. Ma, dato che per discutere servono due persone, la causa della noia in una relazione è anch’essa dovuta a entrambi i membri della coppia.

Se ci si sente afflitti o senza voglia di mettere piede fuori casa, sarebbe opportuno farlo sapere all’altro. Può darsi che non serva solo per sfogarsi, ma che possa anche aiutare il partner a capire come comportarsi. Allo stesso modo, se si trasforma in routine tutto quello che riguarda la coppiaè normale che alla fine si sfoci nella noia

La mancanza di fiducia, lasciarsi trasportare dalla gelosia, l’insicurezza, il senso d’inferiorità o la mancanza di onestà sono alcuni degli atteggiamenti che spesso tendiamo ad adottare quando non siamo felici in una relazione. Tutto ciò sfocia nella rottura o nella noia. Per questo motivo, se si vuole che la relazione continui, e’ necessario decidere di  parlare e/o di migliorare la comunicazione di coppia.

Un altro errore molto comune che riguarda la vita di coppia e la induce alla fine, oltre alla  mancanza di comunicazione, è la mancanza di sostegno reciproco. Spesso quando abbiamo un problema e pensiamo di parlarne, ci tiriamo indietro perché ci convinciamo che l’altro non ci capirebbe. E questa situazione peggiora quando ne parliamo e non ci sentiamo sostenuti, protetti o compresi dal partner. Per evitarlo e’ necessario essere empatici.

D’altra parte, l’avere poco tempo a disposizione è un altro grande nemico di una relazione sana. È importante che all’interno della relazione ci si prenda qualche minuto al giorno per discorrere o un contatto o una carezza o il contatto visivo… contribuirà in modo decisivo a riempire di energia entrambi. Lo stress o le troppe ore passate al lavoro sono in genere dei fattori di alto rischio.

Comunicare e’ la soluzione ottimale

Avere una relazione di coppia salutare e stabile non è un compito semplice e richiede uno sforzo e un impegno consapevole da parte di entrambi.

Ai giorni d’oggi, la mancanza di comunicazione in una relazione è l’origine del suo fallimento. Se c’è qualcosa che dà fastidio dell’altro, dalle piccole alle grandi cose, la miglior soluzione è comunicarlo. Non con un atteggiamento aggressivo, ma con l’atteggiamento proprio di chi desidera manifestare i propri pensieri. Il successo non deriva solo dal sottolineare gli aspetti negativi dell’altro/a (che deve comunque prendere in considerazione le critiche e per quanto e’ possibile modificare alcuni aspetti). La cosa più importante è il sentimento. Per questo motivo, e’ necessario parlare anche delle cose positive e non dimenticare di sottolineare ciò che l’altro/a fa e che ci piace.

Il silenzio non si sente, ma riempie tutto.

Rendendo l’altro consapevole di quello che dà fastidio, forse si possono limare o modificare quelle abitudini che  disturbano. E, se non accade, non andrebbe preso sul personale; semplicemente, cercare di capire che nessuno è perfetto. E, proprio come il partner, anche l’altro/a ha degli aspetti più stravaganti.

Al contrario, se viene scelto il silenzio, non solo si omettono delle informazioni che possono arricchire il legame, ma il malessere interiore crescerà sempre di più. E, alla fine, si scoppia per ogni sciocchezza. Comunicare è vivere. E ciò che non si dice, ciò che l’altro non sa, è come se non esistesse.

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Il narcisista e la tossicodipendenza: c’e una relazione?

Nel paziente narcisista e’ presente la negazione del bisogno degli altri e l’orgoglio di questa autosufficienza, oltre ad una distorsione della dimensione temporale che si esprime nel sentirsi troppo giovani o troppo vecchi, raramente consapevoli della propria eta’ reale. Nel narcisista le emozioni di odio, invidia e rabbia esplodono con improvvisa violenza, emozioni scisse e indifferenziate, la parte buia,l’ ”Ombra”, la cui integrazione risulta particolarmente dolorosa essendo in netto contrasto con la grandiosa immagine di se’. L’individuo identificato con l’archetipo del ‘puer aeternus” mostra un’incapacità di vivere nel presente, un rifiuto della dimensione spazio-temporale, della routine del vivere quotidiano, del lavoro, delle responsabilità e dei sacrifici, percio’  della vita intesa come ripetizione e processo. L’individuo identificato con l’archetipo del puer non vive quindi nella realtà e nell’azione ma in un mondo di fantasia, nell’attesa di un “giorno fatidico” in cui tutto avverrà. Nel frattempo tale individuo e’ quasi “sospeso” in una dimensione fuori tempo, conducendo una “vita provvisoria”, effimera, in una sorta di eterna aspettativa che lo fa vagheggiare di meravigliose possibilità future mai adempiute. Da qui deriva il vissuto di statica immobilita’ del “puer aeternus” che si configura come un’immagine distaccata e fredda, inaccessibile e perfetta, ma bisognosa dell’ammirazione degli altri,di figure che possano rispecchiare ammirandolo, senza disturbare. La grandiosa autosufficienza del puer, il suo immobilismo, sono esemplificate dalla figura di Narciso.

Un’ aura di passività e morte, indolenza e autoerotismo circonda Narciso, incapace di compiere il viaggio eroico, perso in un legame mai sciolto con la madre – inconscio che qui si identifica con la morte dell’Io.

Ma accanto al polo depressivo la duplicità archetipica si esprime nel puer attraverso l’oralità maniacale,la fretta,l’avidita’. La sopravvalutazione narcisistica impedisce sia il contatto umano sia la cura nei confronti di se stesso poiché, una forza archetipica non mostra alcuna attenzione per la sua incarnazione umana. La tossicodipendenza permette una condizione di autosufficienza, dove l’oralita’ si compendia nell’assunzione della sostanza psicotropa, “oggetto ideale” che elimina qualsiasi altro bisogno, compresa la nutrizione. Nel tossicodipendente ritroviamo l’ambiguita del mito e quindi dell’archetipo, il tentativo di superamento della dimensione umana e la morte, l’iperinvestimento del corpo e la sua negazione, la fuga che si immobilizza di fronte alla propria immagine.

Il tossicodipendente può a volte definirsi come partner di una relazione sadomasochistica in cui l’assunzione di sostanze psicotrope avviene su richiesta dell’altro, come segno di ribellione verso i genitori e l’autorità in genere.

Si potrebbe inoltre dire che il puer stabilisce relazioni di ‘tirannia’ tramite le quali entra in contatto con la sua “Ombra” proiettata.

Ma la contrapposizione ingenuità-crudelta’ può rimanere agevolmente all’interno della psiche dell’individuo per il quale, ci può mostrare di se’ due opposte facce, con tranquilla indifferenza – poiché – non lo tormentano i problemi etici, cosi tipicamente umani.

L’opposizione purezza -ferocia e’ una tematica valida per lo studio delle tossicodipendenze.

In conclusione, la tossicodipendenza e’ un tipo di organizzazione “narcisistica” delle strutture infantili che indebolisce e puo totalmente eliminare la parte adulta della personalità dal controllo del comportamento. La struttura interna del tossicodipendente e’ costituita da parti “buone” del Se’ tenute in stato di “passività” nei confronti di parti “cattive” del Se’. Tale asservimento a modalita’ ciniche di pensiero può trovare espressione ‘nella perversione di qualsiasi modalità’ di relazione o di attività nel mondo esterno. Nelle tossicodipendenze quindi possiamo supporre una “struttura narcisistica difensiva”: egli ‘agisce’ una lesione nei confronti di se’ stesso mostrando una notevole negazione dei pericoli cui va incontro. La “scissione” della personalità può essere presente nell’assunzione di una doppia identità sadomasochistica-masochistica in cui il tossicodipendente ‘agisce’ una persecuzione e allo stesso tempo la ‘subisce’.

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Perche e’ importante il rapporto padre-figlio?

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Uno studio della European Psychoanalytic Association rivela che i padri italiani sono gli ultimi in Europa: giocano in media solo 15 minuti al giorno con i propri figli.

Secondo questa ricerca i papà quando tornano a casa si siedono davanti alla tv anziché dedicarsi ai propri figli oppure giocano al computer o alla play station.

Bisogna ricordare però che il rapporto padre-figlio si costruisce fin dalla prima infanzia.

Il rapporto tra papà e figlio maschio è di centrale importanza per la crescita di un bambino, anche se spesso questo legame finisce col venire banalizzato, o addirittura considerato superfluo. Il ruolo della madre è di certo prominente nei primi mesi di vita, poiché la sua figura di protettrice-nutrice fa sì che vengano a crearsi i presupposti per un rapporto simbiotico che ad uomo è di norma precluso.Tuttavia, la figura paterna assume rilevanza centrale non solo per favorire l’emancipazione di un figlio da questo dualismo (che in presenza di situazioni morbose rischia di sfociare nel patologico) bensì fin dai primi momenti di vita di un bambino.Essere un buon padre significa infatti anche sapere accettare un ruolo apparentemente comprimario, ma che in realtà è di importanza basilare nelle dinamiche familiari. Specialmente per un figlio maschio, per il quale l’uomo è imprescindibilmente chiamato a rappresentare il primo – nonché più importante – modello di riferimento.Se inizialmente il bambino cerca costantemente la madre infatti, a causa del suo ruolo che si rifà prevalentemente a compiti di accudimento e di sostegno, ciò non significa che il padre debba essere spettatore passivo della situazione. Anzi, è proprio nella sua “collocazione periferica” rispetto alla diade madre-figlio che l’uomo trova il significato più profondo ed importante della propria figura genitoriale.

Nel corso di questo secolo, in modo lento e differenziato, il ruolo del padre nella famiglia si è trasformato rispetto a qualche decennio fa, quando era presente una rigida individuazione tra maschile ed femminile, con inevitabili ripercussioni nei ruoli genitoriali all’interno del nucleo familiare.

Il padre contribuisce a definire l’identità del figlio, come altro da sé e dalla madre. Nel momento in cui il figlio si sente chiamato con il proprio nome e riconosciuto come altro, cioè con un proprio corpo, una propria pelle, un proprio pensiero, una propria individualità, può separarsi da quell’utero nel quale è stato contenuto e cresciuto e sentirsi nato. E’ questo uno degli aspetti fondanti del rapporto padri figli: la funzione paterna consente  la separazione dall’utero accogliente per entrare in un nuovo mondo; è la stessa funzione che consentirà all’adolescente prima e al giovane poi, di separarsi dalla famiglia ed entrare nel mondo sociale.Il padre con la crescita del figlio inizierà ad assumere una sorta di ruolo di traghettatore del figlio dalla madre verso il mondo esterno.Nel contesto del rapporto padre-figlio, la funzione paterna è stata molto valorizzata da Freud, che individuò la sua importanza soprattutto nei processi legati alla costituzione e all’elaborazione del conflitto di Edipo, allo sviluppo dell’identità sessuale, all’interiorizzazione di un codice etico e morale e allo sviluppo del Super-Io.
Il padre è il testimone della ferita iniziale, quella che rompe la simbiosi madre-bambino e aiuta il figlio a vivere in maniera strutturante le difficoltà della vita educandolo al desiderio. Senza di esso il figlio rimane nella simbiosi, nella stasi che gli impedisce di trasformare tale perdita da esperienza distruttiva a passaggio indispensabile per la costruzione della propria identità.

Ma quali sono le funzioni del papà?

Verso i 7-8 mesi il neonato impara gradualmente a riconoscere la madre come un’entità distinta da sé e comincia a riconoscere la figura paterna. Da questo momento, fino ai 7-9 anni, il padre assume un’importanza fondamentale per il figlio: se questo rapporto viene vissuto appieno, il bambino ha la possibilità di sopportare senza gravi traumi il distacco dalla fase simbiotica con la mamma, imparando a relazionarsi in modo sereno ed equilibrato con il mondo esterno.

In questa fase di scoperta, il papà diventa il simbolo di sicurezza per antonomasia, sia dal punto di vista materiale, sia dal punto di vista emotivo. L’approccio di un bimbo al mondo avviene solitamente in modo cauto e piuttosto diffidente, difatti tendenzialmente si impara prima a dire ‘no’ e poi a dire ‘sì’. Il papà diventa (o dovrebbe idealmente diventare) lo scudo fondamentale da interporre tra la paura e il pericolo percepito. Quando la figura paterna è assente, debole o non disponibile, questo meccanismo può alterarsi, lasciando il bambino spaesato e vulnerabile in un mondo vissuto come minaccioso e più grande di lui.

– E’ padre autoritario ma non autorevole che fallisce, perchè utilizza il distacco emotivo e la durezza per far rispettare le proprie regole perdendo così le opportunità educative che l’autorevolezza gli consentirebbe ma, soprattutto, non sfrutta quello che pare essere l’ultimo vantaggio che rimane ai genitori per essere ascoltati: l’amore.

– E’ il padre che si pone nei confronti dei figli come compagno di giochi rinunciando ai suoi doveri educativi. Egli diventa l’amico dei figli, ma un padre non è un amico, un padre è un educatore il quale per fare bene il suo lavoro si pone su un piano diverso dall’educando, ha un’autorità e deve avere lo spazio e la forza di prendere decisioni impopolari e forti, cose che un “amico” non può fare.

– E’ il padre materno che fallisce perché, pur occupandosi con dedizione ai figli, appiattisce il proprio ruolo in una mera duplicazione delle attività e delle modalità materne. Questo modo di essere fa mancare ai propri figli la figura virile di un padre che fa il padre con un suo stile, un suo metodo, una sua sensibilità. La valorizzazione e l’accentuazione di questa differenza è un patrimonio inestimabile per i figli che, conoscendola, avrebbero l’opportunità di cominciare lo straordinario viaggio verso la scoperta dell’altro, del quale, la scoperta del padre, è la prima tappa.Verso gli 8-9 anni, il padre aiuta a distinguere il bene dal male, trasmettendo i criteri di valutazione che corrispondono all’obbedienza/disobbedienza nei suoi confronti.

Il codice morale primitivo si forma, infatti, sulla base dell’esempio paterno e soltanto in seguito, con lo sviluppo e il consolidamento della personalità, sarà possibile modificarlo. La trasmissione di questo codice morale non avviene mai attraverso «prediche» e discorsi, ma solo ed esclusivamente con l’esempio.

Un padre che bestemmia davanti al figlio non potrà pretendere che il figlio faccia diversamente, perché con il suo comportamento avrà già dato un permesso implicito praticamente impossibile da ritrattare, se non modificando la propria condotta, lo stesso dicasi per un padre che beve o si droga. La crescita ed il continuo confronto con il mondo esterno porteranno, poi, il ragazzo a modificare con fatica le norme errate trasmesse da padri troppo autoritari, punitivi o rigidi e tale processo sarà ovviamente più difficile nel caso di padri immorali o delinquenti.

 Gli strumenti comunicativi a disposizione di un padre sembrano di fatto meno potenti rispetto a quelli che può vantare la madre. Se da una parte il ruolo della madre è di fatto insostituibile, dall’altra lo è anche quello del papà (parlando sempre di situazioni ideali ovviamente,) in quanto e’ possibile far crescere un figlio in maniera sana pur essendo padre single. Uno dei compiti più ardui dell’uomo è infatti quello di mediatore nei processi interattivi madre-figlio, ed è un’incombenza che raggiunge la massima rilevanza proprio nel suo essere “intruso“: si tratta infatti di un’interferenza, quella dell’uomo in questo dualismo, direttamente funzionale sia allo sviluppo autonomo del bambino, sia al “recupero” dal trauma dello svezzamento per la madre.Un buon padre dovrà dunque riuscire a trasmettere serenità alla propria compagna durante il naturale processo di distacco dal figlio, e parallelamente favorire l’emancipazione di quest’ultimo in maniera graduale. Ed è proprio all’interno di queste dinamiche che la figura del padre quale paradigma di riferimento per un figlio maschio, assurge alla posizione più elevata. Tuttavia, anche questo processo non sarà affatto privo di conflittualità. Se nei primi mesi di vita infatti il bambino non soffre la figura del papà, accettandola nella sua marginalità senza particolari angosce, viceversa col passare degli anni il figlio potrà sviluppare sentimenti contrastanti nei confronti del genitore maschio.Anche questo è perfettamente naturale: l’elitaria esclusività della coppia coniugale – un meccanismo integrativo nei confronti del bambino soltanto fino ad un certo punto, poiché a questo non saranno mai concessi i privilegi particolari che regolano le dinamiche del rapporto padre-madre – potrà generare frustrazione nel figlio, che sperimenterà il suo sentirsi parzialmente escluso (benché amato, ma in maniera chiaramente differente). E nello svilupparsi di questi processi, è proprio ai margini dell’adolescenza che il rapporto padre-figlio raggiunge la sua fase più delicata. Il papà sarà infatti chiamato a svolgere la duplice funzione di genitore amorevole e di primo argine educativo; si tratta di un periodo altamente probante, ma che determinerà il buon rapporto tra un figlio maschio ed il suo papà.

La mancanza di una guida autorevole.

La mancanza di una guida, di un punto di riferimento forte che insegni lo spirito di sacrificio e il senso di responsabilità può avere effetti negativi sui figli. Il maschio “senza padre”, se ne è privo fin da piccolo, fatica a sentire le proprie potenzialità maschili.

Il padre oggi è, come direbbe Recalcati, “evaporato” sotto la spinta di una società che ha posto al suo centro il profitto ad ogni costo. Una “società liquida” dove i punti di riferimento di qualsiasi genere sono completamente assenti e dove anche i modelli storici, come quelli religiosi, faticano non poco ad affermarsi o a mantenere le loro posizioni. Una società nella quale il senso del dovere ha lasciato il posto all’edonismo e parole come “autorità” ad esempio, sono rifiutate o semplicemente ignorate.

Ecco  alcuni comportamenti da evitare con i figli

  1. Evita di proiettare sui figli la tua ansia e insicurezza. I padri-chioccia, super attenti e protettivi, che cercano di occuparsi di tutto e di prevenire qualsiasi problema impediscono quel sano processo che rende autonomo e forte il figlio e gli sottraggono la possibilità di «allenarsi» in vista dell’inserimento nella rete sociale. L’ansia paterna rischia sempre di essere tradotta dal bambino nella paura di pericoli reali, provocando timori e insicurezze profonde e difficilmente rimovibili.
  2. No ai giochi di potere. I padri autoritario spesso rischiano di abusare del proprio potere, fino a diventare involontariamente despoti o crudeli: sono i padri che svalorizzano costantemente le madri criticando le loro modalità educative o di cura dei figli; padri stanchi che impongono il silenzio, il dovere e il rispetto finendo per soffocare il desiderio di libertà e indipendenza dei figli, trasformati in obbedienti soldatini. Queste dinamiche spesso stanno alla base della sindrome di opposizione, che si manifesta anche con atti antisociali importanti.
  3. Non metterti in secondo piano rispetto alla mamma. I padri che delegano tutto alla moglie ribaltano il piano di maturazione affettiva del bambino, che avrebbe invece bisogno di trovare in lui la forza e l’autorità sulle quali costruire la propria sicurezza.
  4. Non mostrarti incoerente/imprevedibile. I padri che prima permettono e poi proibiscono la stessa azione, o viceversa, provocheranno nel bambino delle reazioni di difesa da questa figura che non garantisce sicurezza, ma, al contrario, la minaccia perché trasmette imprevedibilità e lascia la sensazione di non sapere mai che cosa aspettarsi.
  5. Non umiliare. I padri che prestano più attenzione agli elementi negativi del figlio e li sottolineano senza riconoscere gli aspetti di potenzialità già presenti e sviluppati, provocano una profonda svalutazione e la sensazione di non essere mai all’altezza o sufficientemente competitivi rispetto al mondo esterno.
  6. Non mostrare comportamenti estremi per sembrare giovane. Cosi si rischia di presentare un modello in cui, (volendo fare il ragazzo, ricorrendo a mezzi/comportamenti estremi pur di far colpo), si genera nel figlio la tendenza all’imitazione, quando forse quest’ultimo non e’ neanche  ancora al corrente del pericolo che certe azioni comportano.

Dopo i 18 anni
In questa fase di età il più è fatto, e si raccolgono i frutti del lavoro degli anni passati. È il momento in cui ci si confronta, in cui un padre dovrebbe ascoltare il figlio e favorire sempre il dialogo, dovrebbe guidare il ragazzo nelle scelte scolastiche e lavorative, ricordandosi che deve dare soprattutto il buon esempio: i figli imparano da quello che il padre fa, diventando, possibilmente il polo degli ideali e delle ambizioni per il figlio stesso.

Uscire vittoriosi da questa sfida non è semplice, ed è di cruciale importanza un dialogo sano e continuativo. Si tratterà dunque di sviluppare un rapporto leale e sincero, pur tenendo sempre presenti i dovuti “paletti” che determinano la separazione della figura genitoriale da quella del figlio; una situazione comunicativa che possa sfociare in un confronto la cui conflittualità sarà funzionale alla ricerca del sé del ragazzo, ed allo sviluppo della sua autonomia non più solamente nelle vesti di figlio, ma finalmente di persona. Anche e soprattutto nella percezione che egli avrà finalmente di sé stesso come tale. Sarà proprio a questo punto che le situazioni di conflitto tra papà e figlio tenderanno a scemare – venendo interrotte quando il padre lo riterrà opportuno – per raggiungere, al termine di questo processo, la promozione di un paradigma comunicativo più maturo. Nella fattispecie, come si suol dire, “da uomo a uomo“.La figura del papà quindi non può e non dev’essere in alcun modo ritenuta secondaria per definizione, soltanto perché appare ad un primo esame come marginale rispetto al ruolo della madre; poiché sta proprio nella sua naturale “secondarietà” il segreto del suo successo.

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Ci si vergogna di provar vergogna

La vergogna puo’ essere intesa come una difesa che protegge il narcisismo fragile, ma anche come espressione del narcisismo ferito. La vergogna puo’ essere intesa come espressione di una particolare strutturazione difensiva, ” la vergogna paralizzante”, la vergogna di “fare brutta figura” in cui l’individuo non si espone mai, mettendosi al riparo, e provandola raramente. Oppure la “vergogna intrapsichica” dove l’individuo si vergogna, ma controlla l’emozione e reagisce positivamente: si tratta di una vergogna anticipatrice che serve per controllare ed evitare le situazioni che possono minacciare il narcisismo fragile ed essere minacciose per l’intregrita’ del se’.

Ciascuno di noi ha provato il disagio e il turbamento di questa emozione, intensamente dolorosa, complessa e multifocale,ma alleata come modulatore delle nostre azioni.

Oggi e’ un sentimento che va sempre piu’ trasformandosi: apparentemente silente non potra’ mai scomparire, percio’ riaffora sotto mille forme.

La vergogna quindi  e’ l’altra parte della medaglia del narcisismo, ed ecco perche’ puo’ insorgere nelle relazioni affettive, o qualora si voglia  parlare in pubblico, o esporci in qualsivoglia modo: essa genera il timore di non essere all’altezza della situazione, proprio a causa di un narcisismo fragile e di una conseguente bassa autostima.

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NOVITÀ! recensioni di ex pazienti

  1. Per chi volesse sapere di più sulla mia persona e sul mio approccio clinico e modo di lavorare puo’ scorrere di seguito o cliccare su “chi sono” e poi su “recensioni”: potrà leggere alcune recensioni di miei cari ex pazienti che ringrazio per le loro parole che mi hanno colpito profondamente e mi danno forza ed energia ogni giorno  per continuare questo lavoro così difficile ma così meraviglioso! Grazie ancora

recensioni

Daniela P.

Attacchi di panico

Ho conosciuto la dottoressa quando gli attacchi di panico e una sterilità idiopatica mi rubavano la spensieratezza dei miei 30 anni.La sua empatia,la caparbietà,le competenze mi hanno regalato la maternità e la serenità.Le sarò per sempre riconoscente perché senza di lei la mia vita sarebbe stata buia…mi ha salvato la vita è ciò che penso quando la consiglio a chi mi chiede un aiuto psicologico..

laura

Un’ottima professionista e un’ottima persona. E’ stata fondamentale per superare il mio problema. Nel percorso insieme abbiamo lavorato su molte cose che mi hanno migliorato la vita. La consiglio con il cuore!

paola

Ho conosciuto la dottoressa Novelli in un periodo in cui non avevo energie per affrontare alcune situazioni che mi affliggevano.
Arrivavo agli incontri con la dottoressa dopo aver percorso 200km in treno con il mio ‘bagaglio di paure’ che la dottoressa,con professionalità,pazienza e determinazione,mi ha aiutato ad ‘alleggerire’ fino a svuotarlo dalle paure e a riempirlo di coraggio e fiducia in me stessa.
Ho avuto la fortuna di incontrare una eccellente professionista,una donna molto intelligente,empatica,colta e competente.

franco

La Dottoressa Novelli è una brava, è capace e preparata, è una bella persona che ama il suo lavoro. Le sono molto grato per la competenza e la dedizione che ha messo in campo ogni singola seduta, e mi ritengo fortunato ad averla incontrata. La consiglierei a chiunque.

mp.pagliari

Ho avuto il privilegio di incontrare la dottoressa Emanuela Novelli e di percorrere insieme una parte costitutiva della mia vita. Una rinascita.
Ero approdata al suo studio a 32 anni in una condizione penosa, di grande dissipazione energetica. Mi sentivo inutile, anzi dannosa, pensavo di sciupare, di inquinare, passare malattie, di mortificare. Sanguinavo nell’anima. Sentivo vicina la fine della mia vita.
Nel contempo avevo tanta rabbia che non usciva perché avevo paura di deflagrare. La dottoressa Novelli ha mi fermato l’emorragia dell’energia vitale, mi ha accolto e curato nella pace del suo studio, mi ha seguito nel ricostituirmi, mi ha accompagnato nel ridefinire i miei confini.
Insieme abbiamo fatto un lavoro profondo basato sulle libere associazioni e sull’analisi dei sogni che, da quando avevamo cominciato, arrivavano ogni notte sempre più copiosi, creativi, agitati, colorati, ricchi di spunti. Nel corso dell’analisi i sogni si facevano po’ alla volta meno violenti e riuscivo a salvare qualcosa che rappresentava la mia vita.
Con il percorso della psicoanalisi siamo arrivate al traguardo di farmi desiderare e percepire lo stato di benessere. Siamo arrivate alla definizione di me stessa, dei miei confini. Ero già molto felice…e da qui sono partita per affrontare la MIA vita!
Un’esperienza creativa e affascinante dove ho potuto sondare la ricchezza e la bellezza della mia esistenza.

marti.cipriani

Sono arrivata dalla Dott.ssa Novelli che ero pressoché una ragazzina, 17 anni e tante tante problematiche che assillavano la mia paura di maturare, di affrontare la vita, il tutto reso ancora più pesante da un’anoressia che era oramai conclamata ed evidente agli occhi di tutti. La Dott.ssa Novelli ha saputo entrare, con delicatezza e sicurezza, nel mio io più spaventato, lo ha preso e se ne è presa cura, ridandomi, piano piano, la speranza che la vita potesse regalarmi un’altra opportunità. E così ha fatto, ora che sono una donna, posso definirla la persona che ha salvato la mia vita, che mi ha ridato la salute, la fiducia e la voglia di amarmi nuovamente, per potere amare un’altra persona, speciale, che è diventato il papà delle mie due figlie.
Non smetterò mai di ringraziare la Dott.ssa per il lavoro fatto su di me, per la sua capacità unica di raccogliere una ragazza spaventata ed ai limiti della vita, e di renderla una donna.
Se qualcuno mi chiedesse a chi rivolgersi in caso di difficoltà, senza ogni dubbio mi verrebbe in mente il nome della Dott.ssa Novelli, che ha realmente salvato, con il suo lavoro, la mia vita.

pascan

Infertilità

È stato un percorso lungo e importante che mi ha consentito di risolvere, crescere e stare meglio. Sono passati anni ma non c’è giorno che non ripensi alla terapia e a quello che mi ha dato. La dott.ssa Novelli è una professionista eccellente.

linda

conosco la dott.ssa novelli da molti anni ed oltre ad essere una professionista seria ha la grande capacita di entrare in empatia con le persone che la contattano.
consigliata.

Gimmy

Disturbi alimentari

Ha dato lei molto più di quanto le abbia dato io,ho sempre contrastato quello che sarebbe servito X il mio bene,con tutte le mie forze ,eppure nonostante questo la dottoressa Novelli mi ha salvato dall’anoressia,dalla bulimia e da mille altre cose.Oggi penso che avrei potuto fare di più ,ascoltarla di più ,vederla di più. È’ stata in cardine ,un riferimento ,una guida ,una speranza e una famiglia,mi ha salvato da un incubo .Non potrei che consigliare lei,se avessi un amico o un figlio in difficoltà e che sta soffrendo,perché saprei di affidarlo in mani esperte e sicure .

Gianni

Come tutti, da sempre, ho tentato di risolvere qualsiasi problema anche psicologico facendo affidamento sulle mie forze, sulla struttura salvifica che mi ero costruito, una vita segnata da alcuni eventi traumatici, la perdita di mio giovane padre a 6 anni , un’innocenza violata, la scoperta dell’omosessualità, l’accettazione ma al tempo stesso la difficoltà nel comunicarla alle persone che mi amavano, il contesto sociale era quello della periferia romana negli anni 80, tutto era più difficile, l’omosessualità sembrava essere accettata solo agli artisti o a quei pochi coraggiosi che lottavano incuranti per la proprià libertà… io non ero un coraggioso. Il tempo passa, e ne passa tanto ad esser sincero e sulla struttura compaiono i primi segni di cedimento, la diga comincia a perder acqua, Sorgono quelli che si riveleranno essere dei veri e propri attacchi di panico violenti ed invalidanti. In quel momento mi sono reso conto di non poter più risolvere tutto da solo. L’analista di una cara amica mi fornisce il contatto della dottoressa Novelli, consuete tre sedute di conoscenza reciproca poi la Dottoressa mi propone di entrare in un gruppo composto da tre persone, non vi nascodo la mia titubanza, ma il bisogno era talmente grande che, stranamente per me, accettai la sfida. Relazionarmi, questo era il vero problema, con altre tre persone apparentemente lontane da me mille miglia sia per problematiche sia per ceto sociale, ho tolto la corazza e ho donato il mio cuore che non pensavo vivo, perdonatemi il romanticismo, nelle mani di tre persone e della Dottoressa Novelli
Ogni seduta uno step, un traguardo , tra entusiasmi ed difficoltà, la voglia di fuggire, la voglia di non presentarsi.
Ogni seduta un progresso, molte zavorre son cadute, prima tra tutte il coming out con persone alle quali voglio bene, molta rabbia è uscita fuori, energia negativa che ho liberato. Non parlo di un miracolo, spero di non trasmettere questo, l’analisi non mi ha stravolto la vita, sono sempre io, la stessa sensibilità, lo stesso essere umano fragile che chiese aiuto, ho una cosapevolezza diversa, imparare ad osservare la vita da una prospettiva diversa, c’è n’è sempre un’altra e lottare per ciò che posso cambiare e accettare quello che non posso. Spesso si parla dell’analisi come un percorso, per me lo è stato , lungo tutta la mia vita, ho ritrovato cose che mi ero perduto, persone che avevo lasciato e gettato altro che portavo inutilmente con me.
Di tutto ciò sarò sempre grato alla Dottoressa Novelli e al gruppo.

Francesco

Punto fermo del mio percorso, la Dottoressa Novelli é riuscita nel corso del tempo, in modo molto cauto , aiutandomi a riprendere in mano la mia vita e trasformarla completamente.
In un periodo scuro della mia vita dove non riuscivo a trovare nelle cose comuni il sorriso per andare avanti la dottoressa é riuscita ad offrirmi motivi sui quali far riflettere la mia felicitá e propagarla all’esterno.
É grazie alla sua disponibilità e bravura ,nei rapporti prima umani ed anche professionali, che mi é stato insegnato a condividire e godere della semplice felicitá.

Arianna A.

Ho avuto la fortuna di incontrare la Dott.ssa Emanuela Novelli in un periodo in cui non vedevo vie di uscita alla mia sofferenza. Certo, riuscivo a lavorare e quindi a mantenermi, ma ero arrivata al punto che preferivo lavorare… i fine-settimana erano diventati una sofferenza senza fine, una stanchezza cronica mi accompagnava per tutto il week-end e non vedevo l’ora che arrivasse il lunedì: cosa sicuramente non normale, non sana.
Parlo di fortuna perché incontrare la giusta psicoterapeuta in un momento della propria vita in cui, a causa del proprio vissuto, si sta attraversando un tunnel buio di cui non si riesce a vedere la fine, è di fondamentale importanza. Incontrare la persona giusta fa la differenza: nonostante le sedute fossero, a volte, molto dolorose e difficili, riuscivo comunque a non saltarne neanche una, perché per me erano l’unico modo per arrivare a vedere la luce alla fine del tunnel… e così è stato.
L’aggrapparmi alle sedute con la Dott.ssa Novelli, il vedere queste come l’unico mezzo a mia disposizione in quel sofferto periodo per arrivare ad avere una vita serena, era strettamente connesso alla figura della dottoressa. Mi ha saputo accompagnare in questo non facile percorso, diventando per me in quel periodo un punto di riferimento molto importante. Allo stesso tempo, nella fase finale della terapia, mi ha preparata, senza che io me ne rendessi conto immediatamente, a “camminare” da sola, recidendo in modo delicato e graduale il cordone ombelicale che inevitabilmente si crea tra una persona e il proprio psicoterapeuta.
Abbiamo affrontato insieme un percorso di terapia psicoanalitica che a tratti è stato molto difficile, ma, nonostante le difficoltà, le mie sedute con la dottoressa sono state per diverso tempo un bastone su cui appoggiarmi. Un bastone necessario in un periodo della mia vita in cui, grazie a lei e insieme a lei, mi fortificavo pian piano interiormente, in modo da riuscire ad affrontare con serenità le mille difficoltà, piccole o grandi, che tutti abbiamo nella vita e che sempre avremo. Il lavoro con lei mi ha permesso di acquisire quegli strumenti di cui tutti dovremmo essere in possesso per affrontare la vita, nel bene e nel male, in modo pieno e sereno.
Non finirò mai di ringraziarla per l’aiuto che mi ha dato e ancora adesso, nonostante siano già passati diversi anni, penso sempre a lei con affetto e gratitudine, perché rimane per me una persona e una professionista seria di riferimento a cui rivolgermi nel caso sentissi bisogno di un supporto psicologico.

Marina

Ho conosciuto la dott.ssa Novelli grazie ad una mia amica , sua ex paziente . Avevo già fatto un percorso analitico e sapevo che era molto importante , per un buon fine della terapia , instaurare da subito un rapporto ” empatico” e così è stato . Ho trovato in lei una vera professionista , mi ha aiutato a credere in me stessa , aumentare la mia autostima ed esprimere le mie emozioni .

Alessia

Ho conosciuto la dottoressa Novelli in occasione della perdita di mio padre. Ero giovane e un pilastro della mia vita era venuto meno. Grazie agli incontri con la dottoressa ho gradualmente riacquisito fiducia in me stessa, fino a lavorare e studiare insieme per laurearmi. Ha contribuito ad individuare i miei punti di forza e a fare leva su di essi. È stata in diversi momenti significativi della vita un punto di riferimento, come confronto, sostegno, conforto e spinta ad andare avanti e a migliorare. È una valida professionista, che insegna a valorizzare la propria dignità.

Bianca

L’ho incontrata ad un punto della mia vita in cui sembrava tutto morto. Era in effetti tutto morto. Ero molto sofferente. Avevo impacchettato e buttato via una parte di me, la più autentica e vitale. Un altro po’ di tempo e l’avrei persa per sempre. Un’analista sbagliata e non l’avrei più recuperata quella parte e con lei il gusto per la vita.

Invece ho incontrato la dott.ssa Novelli, grazie una serie di circostanze fortunate e …per un destino di rinascita che mi aspettava. Da allora abbiamo fatto un lungo percorso insieme. La strada del mio recupero non è stata facile, si potrebbe dire che è stata anche faticosa, eppure la fatica non l’ho mai sentita. Infatti non ho mai mancato una seduta perchè ogni volta che uscivo dal suo studio avevo qualcosa in più e un po’ di luce in più. Lei infatti è non solo una grande professionista, lei è una grande donna, luminosa e generosa.

Così, piano piano ho abbandonato il buio da cui venivo. Lei mi ha tenuto per mano anche attraverso momenti molto dolorosi, che non erano previsti quando iniziò la terapia: la malattia e la morte di mia madre quando ero ancora una giovane donna, il divorzio. Ma mi anche ha aiutato a godere pienamente delle cose belle che sono successe in questi anni: prima di tutto due gravidanze, due figli meravigliosi. E io non ero affatto una che sapeva godere delle cose belle! E ne ha fatto di fatica con me Emanuela Novelli….

Con lei ho imparato a non avere paura. Mi sono scoperta forte e allo stesso tempo mi sono accettata anche nelle mie parti fragili. Ho imparato a sentire il gusto di me stessa, ad essere consapevole e orgogliosa della mia femminilità, del mio essere donna. Ho imparato ad ascoltare il cuore e ad accordarlo alla testa, io che avevo sempre agito e costruito la mia vita come se il cuore non avesse alcun peso e non dovesse avere spazio nelle decisioni di vita. Ho imparato a mettere da parte schemi preconfezionati e a creare la mia vita a partire da me stessa. Ho imparato ad amare la mia anima, il mio modo di essere e il mio corpo.

Tutto questo nella mia analisi con lei, grazie alla mia analisi con lei, la dott.ssa Novelli. Mi ha guidata con intelligenza, perizia, pazienza, determinazione, senso pratico, attenzione, sensibilità e con fiducia. Ho sempre sentito la sua fiducia ed ho imparato ad averne anche io.

Senza di lei non ce l’avrei fatta. Avrei tirato i remi in barca, sarei probabilmente scivolata in una depressione inesorabile, avrei sicuramente moltiplicato i miei atteggiamenti autolesionisti, mi sarei chiusa in pensieri ossessivi. Invece oggi sono una donna soddisfatta, serena, piena e una professionista affermata. Una donna con i suoi problemi, certo, come tutti, ma con molti strumenti per affrontarli al meglio, strumenti che mi ha dato la dott.ssa Novelli.

Quando qualcuno ti svolta la vita, anzi ti riporta alla vita non si può ringraziare mai abbastanza…. Io sono infinitamente grata a questa donna eccezionale che per fortuna mia e dei suoi tanti pazienti ha deciso di fare la psicanalista e lo fa meravigliosamente bene.

fabio m.

Mi sono avvicinato alla Psicoterapia per la prima volta con la dottoressa Novelli. Avevo tanti timori (risultati, i tempi lunghi, costi) ho trovato una terapista empatica che in un periodo ragionevole mi ha aiutato a ritrovare la mia strada. Insieme abbiamo fatto un grande lavoro. Fabio M.

ELI

2018-01-18

Ho avuto la grande fortuna di incontrare la Dottoressa Novelli nel periodo forse più difficile della mia vita, avevo 24 anni e mio padre era appena venuto a mancare. Avevo bisogno di un sostegno psicologico che mi desse la forza di continuare a credere nella bellezza e nella vita. Insieme abbiamo intrapreso un percorso fatto di lunghe camminate, corse, pause, silenzi, curve difficili, discese e risalite. Con i giusti tempi, tappa dopo tappa, siamo arrivate alla fine della strada arricchite entrambe di un’esperienza unica e preziosa. Il percorso di psicoanalisi fatto con la Dottoressa mi ha aiutato a sciogliere tanti nodi che mi portavo dietro fin dall’infanzia e mi ha dato nuovi strumenti per affrontare il futuro in modo più consapevole e per superare i problemi con una sana autoanalisi quotidiana. Con gioia, fatica e determinazione in questi anni di terapia sono riuscita a portare a termine molti obbiettivi e ora dando uno sguardo al percorso fatto, nonostante la mia inguaribile tendenza all’autocritica, debbo ammettere di esserne assai soddisfatta. Ringrazio la Dottoressa la professionalità e per la passione con le quale affronta il suo lavoro ogni giorno.

 

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Madre e figlio dalla vita intrauterina in poi

Nella precoce (fino dalla vita fetale),profonda,emotivamente ricca,relazione con la madre si fondano e si costruiscono tutti quei nodi essenziali che possiamo chiamare “ le chiavi determinanti per la salute fisica e psichica“ futura. Quello che le moderne neuroscienze chiamano il sistema psiconeuro-endocrinoimmunologico.
L’impronta materna originaria,neuro/affettiva/relazionale,da un lato plasma nel piccolo la prima immagine di sé, forgia cioè la matrice da cui si svilupperà la personalità,dall’altro lato struttura il sistema che gli consentirà un equilibrio fisiologico e mentale e una capacità di autoregolazione,che a sua volta lo aiuterà nel progressivo distacco, non traumatico,dall’oggetto primario che gli ha fatto da guida, cioè dalla madre stessa.

Ciò che è accaduto al piccolo,nel bene e nel male,“nei primi 45 mesi determinanti per la vita” (9 mesi nel ventre materno e 36 mesi alla luce) resterà fissato nella memoria implicita e condizionerà per sempre il suo futuro.
Per sempre,l’equilibrio fisiologico e mentale del figlio sarà il riflesso dell’equilibrio fisiologico e mentale della madre.

Il rapporto tra madre e piccolo, fino dalla fase prenatale, non può fare a meno di strutturarsi su una serie di interazioni bio-psicologiche,che hanno la loro ragione di esistere nel concetto di “relazione”.

Si consideri ,per esempio, il fatto che l’embrione rilascia gruppi di cellule staminali, che oltrepassando la placenta, penetrano nella struttura materna, per aiutare a sistemare quegli organi che hanno bisogno di riparazione.
E’ un’azione inconscia,protettiva del piccolo prenatale verso il corpo della madre, cioè verso l’ambiente in cui sta crescendo. Ma è anche un segnale comunicativo verso la struttura che lo ospita. E’come se il nascituro dicesse “ ti do qualcosa di me perché tu stia meglio:dammi qualcosa di te”. E’ un processo di scambio basato sugli stimoli materni e sulla risposta fetale, dove  “ogni stimolo è destinato a diventare una componente della personalità che si sta formando,e dove la natura viene assorbita e ripresa dalla cultura”. (L.Ancona)
Lo psicologico materno diventa biologico e poi psicologico nel piccolo.
Questa dinamica, evolvendosi, trova la sua naturale maturazione nel processo di ATTACCAMENTO.
Nel cervello della madre sotto l’effetto della partecipazione emotivo/affettiva della relazione con il feto e poi con il neonato, si producono, insieme a dei neurotrasmettitori, anche dei neuromodulatori, che sono in grado di aumentare l’efficacia delle connessioni sinaptiche che si stanno formando, e che hanno la capacità di determinare dei cambiamenti duraturi .
L’avvenimento dell’attesa di un figlio, l’agire giornalmente in un lavoro di stimolazione che ha come fine ultimo il suo benessere nel presente e nel futuro, l’emozione del parto e poi il successivo periodo di intenso accudimento, consentono al cervello materno di produrre l’ossitocina, un neuromodulatore che agisce sulle connessioni neurali esistenti, trasformandole e avviando una fase di importanti mutamenti strutturali.
L’ossitocina,chiamato anche “l’ormone della fiducia e dei legami sociali”, favorisce il sentimento di tenerezza e facilita il complesso percorso dell’attaccamento, ma rinforza anche nel piccolo la tendenza a legarsi con gli altri, cioè a socializzare .
L’ossitocina nel corso del travaglio, stimolerà le contrazioni, e dopo il parto favorirà la produzione del latte.
Alcuni studi condotti con la risonanza magnetica nucleare funzionale, consentono di osservare chiaramente che quando le madri prendono in braccio il piccolo o anche soltanto indugiano a osservare la sua fotografia, si attivano le regioni cerebrali ricche di ossitocina.
Tutte queste considerazioni per ricordare alle madri, che dubitano di non essere all’altezza di sostenere il ruolo che le attende e che temono di non riuscire ad affrontare le responsabilità che la presenza di un figlio comporta, quanto sia saggia e previdente la natura. Questa ha,infatti, predisposto che nel cervello materno avvengano delle modificazioni endocrine in grado di trasformarsi in modificazioni affettive, tali da mantenere costantemente vivo il legame con il piccolo. Questi,contemporaneamente, assorbendo ossitocina, sviluppa e fissa per sempre il desiderio della relazione affettiva. Di qui inizia la lunga strada che porta alla maturazione del sentimento dell’EMPATIA.
La madre deve prendere coscienza che ogni stimolo amorevole che proviene dal suo ecosistema psicologico, ma anche neuro-endocrino, fornito dall’ambiente uterino di base, nutre la personalità relazionale del figlio, e che questi, ricco fino dalla fase fetale di abilità percettive, interattive, cognitive, si attacca a lei, ed è in grado di manifestare in modo attivo la sua soddisfazione.
Il senso di sicurezza del piccolo dopo la nascita deriverà dalla profondità del suo attaccamento alla madre.
Ed è sulla base di un felice e intenso attaccamento che incomincerà a svolgersi il processo di APPRENDIMENTO.

Fino a un certo momento della vita fetale non si può parlare di “percezione”, ma si deve parlare di “recezione” dei messaggi materni. Infatti la percezione è il risultato di una serie di operazioni mentali, che organizzano le diverse afferenze che provengono in contemporanea da molteplici sensorialità.
E’ attraverso questo cammino lento dall’afferenza di tipo biologico verso la percezione che è in grado di lasciare tracce nella memoria (la memoria implicita che si basa sulle strutture tattili/emozionali ) che si dipana, per gradi, proprio il processo di apprendimento.
Le iniziali esperienze relazionali fetali sono indispensabili per la successiva costruzione delle prime funzioni mentali propriamente dette, che a loro volta influenzeranno fortemente le fasi dell’ulteriore evoluzione.
Alla base dello sviluppo cerebrale e mentale umano c’è la predisposizione ad apprendere dall’esperienza.

La madre, coinvolgendo il feto e poi il neonato in una serie di esperienze/stimoli, gli insegna come costruire le modalità per l’apprendimento. Attraverso le esperienze gli insegna a “pensare”.
Si delinea così il concetto “dello strutturarsi di una mente primitiva anche in epoca fetale “.
Gli input recepibili dal feto dapprima saranno di tipo biochimico (attraverso la placenta dal metabolismo materno al feto ), poi tattile e uditivo, poi vestibolare, quindi di tipo olfattivo-gustativo e poi ancora proprioaccettivo muscolare.

Questa “teoria del protomentale” è necessaria per spiegare anche il concetto di”transgenerazionalità” e cioè della trasmissione da madre (ma anche da padre) in figlio di certe caratteristiche psicologiche.
E’ la conferma che la caratteristica dell’homo sapiens è possedere fino dall’inizio dell’esistenza intrauterina, una PREDISPOSIZIONE AL “MENTALE”, e che questo mentale inizia il suo sviluppo con la relazione tra l’embrione, e poi il feto, e la gestante.

Si può affermare che, fino dalla fase prenatale, il piccolo “sceglie” la madre come punto di riferimento per le sue prime esperienze interattive con la realtà esterna. Una scelta così intensa ed esclusiva da consentire poi al neonato di riconoscerne la voce, i richiami, i profumi,in mezzo a tanti segnali.

Il bambino, nelle sue prime relazioni con la madre e con il padre, dovrà costruirsi una classe di oggetti (parziali prima e più completi e integrati poi) cui dovrà dare una collocazione spazio-temporale all’interno di sé, in quello spazio metaforico che chiamiamo mondo interno. Un ruolo centrale avrà in questo processo l’esperienza che il bambino ha fatto nella sua crescita endouterina. Queste esperienze sono tutte affidate alla sensoriaIità (in primo luogo uditiva ma anche somoestesica, vestibolare, gustativa), che permetterà al feto di percepire i ritmi materni (cardiaci, respiratori, intestinali), i suoi propri ritmi e gli stimoli provenienti dall’ambiente esterno. Ne deriverà una interazione sensomotoria matemo-fetale la cui caratteristica essenziale è la costanza e la ritmicità. Questi stimoli funzioneranno da “oggetti modello” per la formazione di un primo abbozzo di rappresentazioni e costituiranno per il feto un contenitore ideale per una crescita che è fisica e mentale ad un tempo. In particolare, I’esperienza ritmica uditiva sarà essenziale per lo sviluppo delle funzioni psichiche che parteciperanno alla formazione della categoria mentale deputata alla definizione del bello. Vale forse la pena di accennare qui al fatto che la ritmicità è uno degli elementi essenziali del concetto del bello in ogni forma d’arte e non solo in musica

In questa linea di pensiero è suggestiva l’ipotesi che stati emotivi particolari, come ad esempio lo stato di trance che il suono del tamburo induce in alcuni popoli primitivi e, aggiungerei, lo stato di trance ipnotico che può essere indotto da alcuni ritmi in noi occidentali, sia legato ad esperienze musicali arcaiche radicate nelle prime esperienze che il bambino fa con la madre prima e dopo la nascita e in cui i ritmi biologici materni potrebbero avere un ruolo fondante.

In conclusione ritengo che la vita intrauterina sia determinante nella formazione della personalità dell’individuo in tutte le sue sfaccettature e nell’evoluzione di quella che poi sarà la personalità adulta

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Incontrarsi, scambiarsi idee, conoscersi, esiste ancora? I danni dei Social Network

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I Social Network hanno preso il sopravvento inizialmente tra la popolazione più giovane, da qualche anno anche tra i meno giovani.

Chi e’ in cerca di avventure o semplicemente di un compagno/a o di qualcuno da conoscere non trova più un modo facile. Un tempo c’erano gli amici prodighi nel presentar qualcuno, le feste, le gite, ad oggi ci sono i Social d’incontro, che il più delle volte, si rivelano essere dei grossi bluff, nonché delle grandi delusioni.

Per potersi incontrare e’ bella la causalità, la specialità, il colpo di fulmine perche’ no, la comunanza di intenti e tanto di più. Cosa può fare un Social Network? Come si presenta una persona su di un social? Sara’ la stessa che poi incontrerai? Dira’ le cose per quelle che sono? Che intenti può avere?

Spesso sono persone o molto sole e c’e’ da chiedersi il perche’, spesso desiderose/i di relazioni extraconiugali e magari dall’altra parte non c’e’ lo stesso intento.

Allora sono meglio le organizzazioni europee in cui ci sono luoghi di incontro de visu quali,  i club del libro, i dibattiti, addirittura i supermercati per single e le organizzazioni turistiche per soli single.

Nei Social ognuno può dire quello che vuole, ma anche ciò che immagina, cio’ che e’ ma non e’, e per molti si rimane mesi e mesi in rapporti del tutto virtuali che simulano rapporti veri, creando illusioni, ma sono solo maschere e giochi di vita per non star soli. Per altri sono incontri fugaci che non vanno a buon fine, lasciando amarezza e senso di perdita di tempo.

Allora perche’ non cercare l’incontro? Si ha molto paura dell’altro/a, in particolare le donne degli abusi sia psicologici che sessuali, ma in generale si teme  stabilire relazioni durature, di scambio e condivisione. Si temono le dinamiche che si potrebbero instaurare tra le famiglie allargate, e poi se sono presenti elementi persecutori o paranoie si vedono anche elementi che non ci sono, attivando persecuzione sul o sulla partner.

Insomma, i Social difendono paradossalmente da tutto ciò che ho scritto sopra a discapito pero’ dall’incontro umano, caldo, civile e rispettoso nella reciprocità.

Abbattere queste dinamiche per noi adulti dara’ un grande aiuto ai nostri figli adolescenti, in cui l’incontro addirittura e’ sostituito dal messaggio vocale su whatsapp.

Si riconsideri, lo sport, gli hobby, i punti di incontro culturali, dove si possono incontrare persone che magari hanno gli stessi nostri interessi e ci piacciono per quello, per quello che sono  e non solo.

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E bastava una inutile carezza a capovolgere il mondo  (Alda Merini)

L’IMPORTANZA DELLE CAREZZE

Il tema delle carezze e’ un tema a me particolarmente caro poiché in esse veicolano tanti messaggi, tra i non detti, i detti, i sottointesi, la dolcezza, la comprensione, la necessita’ del pelle a pelle ed altro ancora…..sicuramente tanto altro ancora.

Allora inizio con delle frasi gettate cosi, per pensare e poi scriverò qualcosa inerente alla carezza stessa.

– Se non sai che fare delle tue mani, trasformale in carezze

– Questo e’ quello che mi sento quando mi accarezzi. Come milioni   

  di piccoli universi che nascono e muoiono nello spazio tra il dito e

  la mia pelle

– In una carezza, in un abbraccio, a volte c’e’ più sensualità che nel

  vero e proprio atto d’amore

– Le persone che sanno accarezzare sono quelle che amano di più.

  La carezza e’ il gesto d’amore più intenso di tutti

– La carezza e’ il ponte tra due abissi di solitudine. Perche’ il cielo e

  la terra passeranno, ma certe carezze non passeranno mai

– La carezza di una persona cara, il contatto con qualcosa di

  morbido culla il nostro dolore meglio di tutti i ragionamenti del

  mondo

– Un uomo si misura dalla gentilezza e non dalla forza. Più il suo

  sfiorarti e’ carezza, anche quando usa le parole, più sarà Uomo

– Che cosa e’ una carezza allora? E’ sentire l’amore che ti passa tra

  le dita

Questo gesto in estinzione, rivoluzionario, incompreso, persino dal vocabolario. Carezza: “Tenera dimostrazione di amorevolezza e di benevolenza un po’ leziosa che si fa lisciando con il palmo della mano. Esempio: far le carezze al gatto”. Va riscoperto il significato profonda della Carezza. Tocco della vita. Il Cristo ha resuscitato i morti con una carezza, c’e’ l’accoglienza. In una vera carezza c’e’ la cognizione del dolore dell’altro, perche’ reggere il voltaggio di una autentica carezza e’ difficile quanto un miracolo. E’ con una carezza che Maometto sposta la montagna e la morte si concilia con la vita.

SEPPUR LEGGERA,UNA CAREZZA HA LA FORZA DI RAGGIUNGERE L’ANIMA

La carezza e’ la prima forza di nutrimento che la madre da’ all’infante. Il bisogno di carezze dura tutta la vita, benché la forma delle carezze cambi e sembri diventare più sofisticata. Nella vita da adulti le carezze sono cosi importanti che per ottenerle si escogitano i sistemi più elaborati. A volte gli adolescenti devono ridursi a rubare le automobili o i motorini o a non rispettare i semafori per avere delle carezze e ciò dimostra che anche le carezze con il bastone sono meglio di niente.

La carezza e’ una qualsiasi azione che comporti il riconoscimento di una persona soddisfacendo cosi la fame di carezze, ciò dal punto di vista della funzione. In qualità di contenuto una “carezza” e’ un messaggio che ci indica l’essere OK o NON OK  dell’altra persona.

La persona passa da un bisogno estremo di molte carezze fisiche, per sopravvivere nell’eta’ infantile, ad un bisogno più vario di carezze, non solamente fisiche. Tutte hanno lo scopo di soddisfare la fame di riconoscimento, per cui un apprezzamento verbale ha per un adulto ha lo stesso significato di una carezza fisica per il lattante: ma anche l’adulto ha bisogno di carezze fisiche, spesso più incisive della vita sessuale all’interno dell’intimità di una coppia. Il corpo o il volto accarezzato e’ una manifestazione di contatto unica, particolare, sensuale e di grande scambio di emozioni e di non detti, spesso difficili da dire.

Da bambini richiediamo istintivamente carezze positive in vari modi. Se la nostra richiesta non ha successo allora ne inventiamo altri, per avere carezze, anche negative, che, pur dolorose, sono meglio di niente.

Nella vita adulta può succedere che chiediamo ancora carezze negative e ciò spiegherebbe alcuni comportamenti che appaiono autopunitivi.

Una carezza rinforza un comportamento. I comportamenti che da bambini piccoli hanno prodotto carezze tendono a essere ripetuti da adulti e ogni nuova carezza rinforza quel comportamento.

Le persone adulte continuano ad essere bisognosi di carezze, ripetono comportamenti per ricevere carezze e se non ve ne sono abbastanza di positive per esaudire il loro bisogno, cercheranno quelle negative. Per cui, chi ha deciso da bambino di cercare le carezze negative per non rischiare di rimanerne senza, può da adulto produrre comportamenti che appaiono autolesivi, per raccogliere proprio quelle carezze negative.

Alcune persone hanno difficolta’ a dare carezze positive, specie quelle fisiche ed in genere provengono da una famiglia avara di carezze positive.

Ciascuno di noi ha le sue preferenze per quanto riguarda il prendere le carezze, ed in genere si e’ abituati a ricevere le stesse carezze. E’ possibile che qualcuno pur volendo riceverne altre, raramente le ottiene, oppure e’ egli stesso che si nega quelle carezze che pur desidera, negando a se stesso il proprio bisogno ancora insoddisfatto.

Ogni persona ha come dire un suo quoziente di carezze preferite e carezze diverse vanno bene per persone diverse, dimostrandosi di bassa qualità o di alta qualità, a seconda della specifica persona.

Ogni volta che lo vogliamo possiamo dare una carezza. Non finiranno mai! Quando le vogliamo, le possiamo chiedere, se offerte prenderle. Possiamo anche rifiutare apertamente una carezza che non ci piace e dare carezze a noi stessi.

Il nostro bisogno di carezze e’ fondato sul bisogno di riconoscimento che e’ esso stesso una carezza, per cui i confini fra carezza buona-positiva e cattiva-negativa non sono netti, essendo la carezza in se stessa positiva, utile per l’individuo, rispondendo al bisogno di riconoscimento.

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